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Il romanzo del primo '900

A cura di C. Lupini

Contesto storico

 

La crisi di fine Ottocento

Negli ultimi decenni dell'Ottocento si verifica in Italia una profonda trasformazione che investe la vita politica e culturale. Conclusosi il processo risorgimentale, di fronte ai gravi problemi dell'Italia unita la classe dirigente conservatrice si mostra incapace di dare una risposta efficace; con l'avvento della sinistra al potere le cose cambiano poco: la base elettorale è esigua, si pratica il trasformismo parlamentare, il ricambio politico è ridotto al minimo provocando l'appiattimento della vita parlamentare e il depauperamento dei principi democratici.

Di fronte ad una simile situazione, nei giovani intellettuali si fa avanti da un lato il vagheggiamento di uno stato forte e, dall'altro, la critica agli stessi ideali democratici; inoltre la burocratizzazione e lo sviluppo industriale porta come conseguenza il formarsi di masse operaie con i relativi problemi. Anche queste forze, quindi, contestano lo stato liberale borghese e la prassi parlamentare, ma anziché la soluzione dello stato forte e della politica di prestigio imperialistico prospettano, sulla scorta della ideologia marxista, ben altre soluzioni.

Nel complesso, quindi, in una situazione che vede più intensi conflitti sociali, in cui gli intellettuali criticano la realtà presente, la classe dirigente è in una posizione di gelosa difesa e di chiusura. È, almeno in parte, collegabile a questa situazione quella fuga della realtà che caratterizza la letteratura e l'arte degli ultimi due decenni del secolo e che trova la sua più vistosa esemplificazione nella polemica contro il positivismo e la sua fiducia nel potere liberatorio della scienza.

Va aggiunto anche che il positivismo e le forma d'arte ad esso collegate declinano perché a lungo andare appaiono troppo anguste, troppo condizionate al canone della verosimiglianza che sembra depauperare e circoscrivere i confini del rappresentabile. Sorge così una tendeza profondamente differente, quella cioè di andare oltre il reale, oltre il verosimile; di toccare, al di là della fenomenica apparenza, il fondo autentico della realtà; di creare nuovi moduli espressivi che diano voce all'inesprimibile, ad una dimensione fantastica, allusiva e onirica.

 

Le inquietudini del primo Novecento

Il primo quindicennio del Novecento è dominato da Giovanni Giolitti che, allontanandosi dalle tendenze quasi auoritarie degli ultimi anni, tenta un coraggioso disegno politico: quello di integrare nello stato liberale le nascenti forze operaie e quelle del liberalismo avanzato. Tuttavia quei vagheggiamenti dello stato forte, quelle esaltazioni nazionalistiche che già alla fine dell'Ottocento erano visibili ora assumono maggiore consistenza.

Su riviste come Il Leonardo [1], Il Regno, La Voce [2], Hermes, e nelle serate futuriste, folti gruppi di intellettuali esaltano l'avventura, il rischio, la missione africana dell'Italia: il tutto contaminando la dannunziana lezione di una vita d'eccezione col torbido esplodere di posizioni irrazionalistiche e con gli interessi espansionistici della gande industria.

L'altro fatto che fa fallire il disegno di conciliazione tra le classi teorizzato da Giolitti è il progressivo affermarsi, in campo socialista, di una corrente massimalistica, di una mitologia della violenza rivoluzionaria che trova terreno di scontro negli ambienti industrializzati.

Contro le mitologie dannunziane e, più in generale decandentistiche, comincia la sua polemica Croce che via via elabora un sistema filosofico di laica razionalità e teorizza una conceione del fatto artistico che si dimostrerà sempre più restia ad accogliere quel processo che era iniziato negli ultimi decenni dell'Ottocento.

Sotto il denominatore comune dell'opposizione ai moduli dannunziani vanno visti i crepuscolari e i futuristi. I crepuscolari oppongono ai miti dannunziani la prosaicità, la dimessa vita giornaliera e provinciale; i futuristi con virulenza iconoclasta predicano la distruzione dei musei e della tradizione, il ripudio dei formalistici compiacimenti dannunziani ed esaltano la macchina, la velocità, la violenza e la guerra.

 

Caratteri generali

La tipologia del romanzo si modifica notevolmente con la crisi di valori che investe la civiltà europea tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Tale crisi va posta in rapporto con il venir meno delle certezze del Positivismo e del mito stesso della scienza; si diffondono nuove proposte interpretative della realtà (A. Einstein) [3] che non è più considerata compatta e conoscibile, ma complessa contraddittoria e inafferrabile; si riscopre la finitezza dell'uomo e il mistero che lo circonda sulla Terra e nell'inifinità dell'universo (G. Pascoli) [4]; si smarrisce la fiducia di poter istituire un saldo rapporto con il reale e viene meno, quindi, la possibilità di dominarlo e rappresentarlo artisticamente; tale crisi di sfiducia nell'oggettività del reale comincia a prendere corpo nelle visioni e nelle esperienze figurative dei simbolisti.

Sul piano letterario il distacco dal naturalismo o dal positivismo avviene per mezzo di una gran varietà di forme che vanno dal simbolismo (Baudelaire, Moréas) al misticismo (Tolstoi), allo psicologismo e all'estetismo (O. Wilde, G. D'Annunzio): tutta una serie di indirizzi e tendenze che, compenetrandosi in varia misura, confluiscono nel movimento definito Decadentismo.

La parola Decadentismo è un termine usato in Francia, con significato dispregiativo, nella seconda metà dell'800 contro i "poeti maledetti" che, con la loro arte, con la loro vita irregolare e disordinata, apparivano alla gente comune dei "decadenti", cioè corrotti e dissoluti. Ma essi non si offesero per l'appellativo, anzi se ne impadronirono e lo usarono come vessillo di battaglia. Al concetto di decadenza si abbinava anche l'idea di un aristocratico distacco dal "gregge dell'uomo comune", di una superiorità culturale in cui la qualità artistica coincideva con un'esasperazione della sensibilità fino ad assaporare le più nascoste ed inconsuete sfumature delle sensazioni, gli aspetti più nascosti dell'essere, dominato dalla suggestione dello strano, dell'inconscio, dell'ignoto. Il termine Decadentismo ha, successivamente, assunto un significato non più negativo ma serve ad indicare, sul piano storico-culturale, la civiltà sorta dalla crisi del Positivismo.

Risultato della concezione relativistica della realtà e della dissoluzione della peronalità sono l'irrazionalismo e l'idividualismo. Sigmund Freud, con la psicoanalisi [5], mette in crisi radicate convinzioni scoprendo nella psiche dell'uomo due livelli dialetticamente compresenti: il livello del conscio, frutto dell'esperienza e della cultura, e il livello dell'incoscio, che è il frutto della natura e dell'istinto.

Compito dell'artista è ora quello di cercare di esprimere e di penetrare regioni dello spirito che sono ancora inesplorate. Di qui deriva una nuova concezione dell'arte la cui ascendenza va ricercata nel romanticismo, ma mentre l'artista romantico guardava soprattutto ai sentimenti, l'artista decadente si volge alle sensazioni, alle percezioni e alle impressioni.

Questa particolare ed estrema attenzione alla personalità e all'io, hanno finito per produrre, sia sul piano morale che in quello artistico, un disgregamento della personalità e un moto centrifugo dal rapporto di continuità che lega le varie impressioni e sensazioni, causando poprio lo sbriciolamento dell'io stesso.

I sentimenti del Romanticismo

Uno dei fatti più caratteristici del romanticismo fu la rivalutazione del lato passionale ed istintivo dell'uomo. Questa tendenza porterà anche a ricercare le atmosfere buie e tenebrose, il mistero, l'orrido ed il pauroso.
L'artista romantico ha un animo ipersensibile, sempre pronto a continui turbamenti. L'arte romantica deve scoprire l'anima delle cose, rivelando concetti quali il sentimento, il religioso, il soggettivismo e l'ansia di una vita come inquietudine e desiderio.

I romantici ritenevano che l'uomo sia in preda ad un "demone infinito", il quale fa si che egli, insofferente di ogni limite e mai pago della realtà così come si presenta, risulti in uno stato di irrequietezza e di tensione perenne, alimentata dai forti sentimenti che egli esprime e che lo portano a voler sempre trascendere, nonostante siano sfuggenti, gli orizzonti del finito.
Tale concetto di "desiderio" o "aspirazione sfuggente" è espresso con "Sehnsucht" secondo un'spressione del Romanticismo tedesco.

L'infinito nel Romanticismo

Gli atteggiamenti che fanno scaturire nel Romanticismo un'assidua ricerca dell’infinito sono:
• l’inquietudine, causata dall’aspirazione verso qualcosa che sfugge sempre e che si concretizza nel desiderio di varcare i limiti della realtà, per raggiungere l’infinito;
• l’ironia, che consiste nel rifiutarsi di considerare come cosa salda le manifestazioni particolari dell’infinito (come la natura, le opere, l’io), perchè esse non sono altro che provvisorie espressioni dell’infinito stesso;
• il titanismo, che esprime un atteggiamento di sfida contro le forze superiori (come il destino, la società, la natura) accompagnato dalla consapevolezza di una sconfitta dinanzi alla quale si è portati al suicidio;
• il vittimismo, che manifesta la consapevolezza dell’uomo romantico di essere incompreso nella realtà presente, sentendosi così schiacciato dalle forze superiori;
• l’esotismo, che esprime la tendenza ad evadere dalla quotidianità, da tutto ciò che rientra nei limiti del finito. In particolare l'esotismo spaziale che concentra la sua attenzione nella scoperta di luoghi lontani come l’Oriente, e l'esotismo temporale che si concretizza, ad esempio, nel culto dell’Ellade e nella riscoperta del Medioevo;
• l’esaltazione del sentimento, concepito come l’unico strumento in grado di risalire alle sorgenti primordiali dell’Essere ed intese talora come l’infinito stesso.

L'angelismo pirandelliano

Uno degli elementi importanti in Pirandello si chiama, secondo la definizione del filosofo francese Maritain, "angelismo", che significa credere l'uomo un angelo, e, scoprendo poi che non lo è, scandalizzarsene, e allora disprezzare l'uomo.

Questo angelismo si manifesta in una quantità di particolari: per due volte Pirandello ha occasione di parlare di gente in salute che va a visitare un ammalato, e che uscendo dalla soglia dell'ospedale tira un sospiro di sollievo al pensiero che la pena di quella visita sia finita. Pirandello torna poi, nuovamente per due volte, su un figlio che assiste la madre morente e agonizzante da giorni, e per giorni il figlio stesso non riposa e, ad un certo punto, vedendo che tale strazio non finisce mai, ne desidera la fine: una situazione dolorosamente umana.

L'angelismo è connesso con un antico tema romantico: il desiderio che l'uomo sia infinito, perfetto e capace di tutto. Di qui nasce nel Romanticismo un certo umorismo. Nel saggio sull'umorismo Pirandello dice che l'umorismo nasce dal sentimento del contrario.

Le sensazioni nel Decadentismo

Con la perdita della fede religiosa, per effetto delle negazioni positivistiche, la nuova angoscia fu senza conforto e si tradusse spesso nella maledizione dell'esistenza stessa. Per gli spiriti psichicamente fragili, incapaci di padroneggiare i propri sentimenti, lo sbocco di questa angoscia fu una fuga dalla realtà. con le sregolatezze dei sensi con tutte quelle manifestazioni di vita, di costume e di cattivo gusto che hanno qualcosa di insano e irrazionale. Per gli spiriti forti, invece, lo sbocco dell'angoscia fu l'accettazione virile ed operosa della realtà e l'impegno per la costruzione di un mondo migliore.
Gli ideali romantici e positivistici vennero infatti smentiti brutalmente dai feroci conflitti interni ed internazionali per cui, tramontato l'ottimismo positivistico, al suo posto subentrò una visione pessimistica ed angosciosa della vita

La poetica dei decadenti si sviluppa quindi sul terreno di una accesa polemica antirealistica, ma affonda le sue radici sul ripudio delle istituzioni sociali storiche e della cultura tradizionale. Alle lettere si affida il compito di penetrare nel mistero della vita attraverso l’esplorazione dell’inconscio. Di qui la tendenza alla introspezione più attenta e lucida ed alla confessione spregiudicata delle proprie più intime sensazioni, cogliendo gli aspetti più nascosti dell'essere, dominato dalla suggestione dello strano, dell'inconscio, dell'ignoto. Di qui ancora l’uso di un linguaggio totalmente svincolato da ogni norma grammaticale e l’adozione di immagini simboliche (“simbolismo”) che intuitivamente possono far cogliere l’analogia fra gruppi di sensazioni diverse, impossibile da spiegare sul piano della logica, ma necessaria da intendere se si vuol pervenire alla conoscenza del segreto della vita.

Il romanziere, invece di fare della sua opera una specie di strumento di dialogo con gli altri, la riduce spesso a qualcosa di simile ad un monologo, ad una rassegna delle sue individualissime e raffinate sensazioni sfociando spesso in particolare autobiografismo.

La ricerca dell'ignoto e dell'inconscio, il senso della solitudine, la noia, l'analisi delle proprie sensazioni, il senso di disfacimento e della morte, la confusione tra l'arte e la vita che conduce al vivere inimitabile, l'amore per le perversioni dei sensi, l'universale corrispondenza e analogia tra le cose, la mescolanza di motivi religiosi e sensuali, ecc. costituiscono una serie di condizionamenti che porteranno gli autori decadenti, infine, a rifiutare la funzione sociale dell'arte che era stata, invece, propria del Romanticismo.

Nel romanzo la figura dell'"inetto", "l'uomo senza qualità" elevato da Pirandello e da Svevo ad espressione dell'uomo decandente, esprime la più seria presa di coscienza della pluralità della profonda crisi di valori che investì, tra la fine dell'Ottocento ed i primi anni del Novecento, la società europea.

Nelle loro opere, i due scrittori rivelano le insanabili contraddizioni che lacerano la vita dell'uomo, la sua solitudine e precarietà, la sua incapacità di uscira dal dramma attraverso insolite scelte esistenziali.
L'elevazione della "malattia" a condizione normale dell'esistenza umana, appare come la rassegnata accettazione, da parte dell'uomo, del suo destino di sconfitto. Siamo qui agli antipodi del "super-uomo" dannunziano.

Questa visione dell'uomo ha le sue radici nel Romanticismo che, in un certo senso, ne aveva già in se i germi. Esso era nato da un fondamentale contrasto di due esperienze, l'una mistica, che tendeva a dissolvere l'individuo nel tutto, l'altra intellettualistica, che voleva il tutto sotto i dominio dell'individuo.
L'eroe romantico è appunto l'uomo che, poiché si è innalzato all'aspirazione di valori assoluti e infiniti, porta la medesima aspirazione, cui non vuole rinunziare, anche nel mondo del contigente e del limitato; e dalla delusione inevitabile che ne nasce, è spinto a vedere nella morte la conclusione tragica e magnifica di ogni grande ideale e di ogni grande passione. È proprio questo atteggiamento che diverrà esplicito nell'eroe decadente.

 

Prime esperienze letterarie in Italia

Fogazzaro e D'Annunzio

Nello stesso decennio in cui sono pubblicati i capolavori veristici del Verga (I Malavoglia e Mastro don Gesualdo), appaiono due romanzi che si staccano decisamente dal naturalismo e sono, pur nella loro diversità, entrambi precorritori di un mutato clima culturale e letterario: si tratta di Malombra di Antonio Fogazzaro e del Piacere di Gabriele D'Annunzio.

L'esplicito rifiuto del realismo espresso dal Fogazzaro nel suo discorso Dell'avvenire del romanzo in Italia ritorna in gran parte nei suoi romanzi, nei quali prevale spesso l'attenzione ai sottili casi psicologici ed ai problemi di coscienza di anime inquiete. La sua poetica mira all'eccezionalità dell'assoluto e al culto della bellezza; le origini dell'arte, per lui, vanno ricercate al di là della realtà sensibile, oltre le soglie della coscienza, nelle emozioni recondite e misteriose dello spirito. Certamente Fogazzaro non impersona più il tipo del narratore onnisciente, che domina dall'alto e con sicurezza la realtà, ma egli stesso ne è coinvolto (autobiografismo) cosicché la modernità della sua arte consiste forse nell'impulso a realizzare una sorta di identità tra poesia e vita, in chiave decisamente più soggettiva che oggettiva.

Anche con D'Annunzio il romanzo si allontana dall'impianto tradizionale per assumere la forma di romanzo-poema o di una lunga lirica in prosa. I personaggi dannunziani vivono immersi in un'atmosfera atemporale, in un giro di perenni ritorni delle cose e degli eventi, e, perdendo la loro individualità concreta, si riducono ad entità impersonali, a qualità astratte. La preoccupazione dell'autore è quella di creare atmosfere più che di narrare avvenimenti. Anche lo spazio assume in D'Annunzio una dimensione psicologica che, coincidendo con la mente o con la fantasia dei personaggi, si configura nella forma cosiddetta del labirinto.

 

Svevo

Italo Svevo tenta la sua prima sortita nel mondo delle lettere nel 1892, pubblicando a proprie spese il romanzo Una vita.

Nel 1898 pubblica il secondo romanzo, Senilità, che passa del tutto inosservato come il precedente. In seguito a ciò sembrò rinunciare ad ogni ambizione letteraria fino al 1923, anno in cui dà alle stampe (forse per incoraggiamento di Joyce) un lungo racconto autobiografico: La coscienza di Zeno.

Con anticipo eccezionale, Svevo sostituisce all'indagine naturalistica una rappresentazione della realtà che muove all'interno dei personaggi, che scoprono in sé una irrimediabile alterità e conflittualità, propria di chi non sa adattarsi nella società e nella realtà stessa.

Motivi essenziali dell'opera di Svevo sono il riconoscimento dell'assurdità e dell'insignificanza della vita e non l'esaltazione, ma la rappresentazione dell'uomo comune, privo di qualità particolari, e soprattutto di capacità volitive. Il protagonista dei romanzi sveviani può essere definito un "anti-eroe" e i temi correlati sono la malattia (fisica e mentale), la senilità, l'inettitudine, l'autopunizione, la morte. Dal monologo interiore dei suoi personaggi emergono esperienze grottesche e paradossali, comicamente assurde, ma pietosamente umane.

Negli ultimi anni Svevo era venuto a contatto con la psicoanalisi che, in parte, contribuirà a dare maggiore analisi psicologica ai suoi personaggi. Un libro come La coscienza di Zeno è infatti un'opera complessa, dal ritmo lento e a volte monotono, ma è ricca di tentativi di esplorazione dei misteriosi fondi della nostra coscienza. Anche la lingua vine adattata; infatti Svevo non la usa come ornamento formale, ma la fa aderire alla psicologia dei personaggi, scavando nel profondo di essi.

 

Pirandello

Il primo romanzo di Prandello, L'esclusa, del 1893, è pubblicato in volume nel 1901. Già in questo romanzo, ancora naturalistico per l'impianto e l'ambiente, si avverte che la componente veristica comincia ad essere corrosa dall'approfondimento psicologico del personaggio principale.

Tra i romanzi pirandelliani i più notevoli sono forse Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani e Uno nessuno e centomila: con essi lo scrittore siciliano si inserisce decisamente nella narrativa decadente europea, tesa ad affrontare i problemi dell'uomo contemporaneo analizzando, nel suo intimo, la drammatica condizione di alienazione del suo essere individuale in rapporto con la società e con se stesso.

L'idea centrale di Pirandello è che la realtà non ha valore oggettivo, ma è costruzione, proiezione soggettiva del singolo di fronte al mondo, un'illusione; è l'uomo che è ingannato dal mondo e da se stesso; questa concezione ricorda sotto diversi aspetti la dottrina del Vedanta [6] una corrente del pensiero religioso e filosofico indiano in cui si affronta il problema dell'illusione (Maya), già ripreso da Schopenhauer nel suo sistema filosofico.
Ognuno percepisce le cose in maniera diversa in relazione al suo continuo mutare in terno. Di qui l'insuperabile solitudine del singolo e il ricorso ad una poetica, conoscitiva e critica, che mira a scomporre la realtà per farne risaltare il "sentimento del contrario". Quello che interessa veramente a Pirandello è la reazione di fronte al mondo e alla vita, la reazione che si è cristallizzata nella coscienza di chi la vive.

Ecco l'intima drammaticità dell'opera pirandelliana e la sua profonda umanità, il suo tormento, la sua pena e la sua pietà per il destino doloroso dell'uomo. Il sentimento del contrario e l'amara compassione di Pirandello costituiscono una poetica che è stata paragonata, per la sua "teoria del riso straziato" (Cfr. LEONE DE CASTRIS, s.v. "Pirandello", in AA. VV., Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, 1973, vol. III p. 60) alla consapevolazza dell'Ultimo Leopardi: la ricerca della verità e la scoperta dolorosa della vanità di ogni ricerca; lo stesso Pirandello dichiara: "Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria".

Moravia ritenne che Pirandello ebbe anche nel teatro il ruolo he altrove ebbero Joyce nel romanzo e Picasso nella pittura. Ricevette (come Joyce e Picasso) un'arte naturalistica che egli distrusse capovolgendo le posizioni umane e morali care a quel mondo.

 

Tozzi

Anche il romanzo di Tozzi segna la crisi dell'uomo di fronte all'impossibilità di spiegare razionalmente il mondo nei modi della narrativa naturalistica. Le sue opere principali sono una raccolta di prose liriche, intitolata Bestie, e tre romanzi: Con gli occhi chiusi, Il podere e Tre croci.

Rimasto lungamente quasi ignoto, Tozzi suscita oggi un notevolissimo interesse specie per il fatto che si sono ritrovate nella sua opera di autore solitario di provincia alcune delle caratteristiche fondamentali della narrativa europea del Novecento, e soprattutto perché si riscontra in lui un modo nuovo di guardare all'uomo attraverso un esacerbato autobiografismo.

Per la sua natura complicata e torbida, ondeggiante fra sensualità e misticismo, timidezza e violenza, Tozzi non riesce ad avere una visione limpida della realtà. Di qui lo sforzo di oggettivare le proprie esperienze nel romanzo, creando personaggi autonomi, e insieme l'impegno di uno strenuo scavo linguistico; così facendo rischiava di rimanere fermo all'autobiografia o alla pura psicologia.

Tema di fondo è sempre la tormentosa condizione di distacco dalla realtà con il risultato di un completo estraniamento dell'uomo, sempre sconfitto nonostante ogni suo sforzo di fronte al mondo. Il personaggio di Tozzi è un debole e un irresoluto, un istintivo e insieme un introspettivo. L'angoscia che emana dai suoi scritti è una delle manifestazioni più acute di quella forma di disgregamento spirituale, caratterizzato da eccesso di sensibilità e da un eccesso di riflessione e introspezione.

La novità dei personaggi di Tozzi consiste nell'apparizione in essi dell'anima-coscienza, dei suoi turbamenti e rimorsi di anima borghese, tuttavia consapevole del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. e che essi tentano di proiettare al di fuori e di estendere alla gente. Falliti i loro tentativi di fronte all'opposizione di tutta una società corrotta e di fronte alla propria debolezza, questi personaggi non resistono, si chiudono di nuovo in se stessi, nella propria inutile coscienza, e quindi muoiono come personaggi positivi. L'anima di tali personaggi non è proprio quella dei vinti, non v'è sottomissione e passività, ma conflitto e turbamento, timido coraggio e reazione; riflettono il sentimento del borghese che vede quali sono i valori veri, ma non riesce più a realizzarli in una società degradata dove ci si rinchiude nella propria solitudine o in una superba morte.

Personalissimo è poi il suo stile, aspro e secco, ma calcolato e attento nell'uso del lessico (spesso di origine dialettale) e nell'uso della punteggiatura e delle pause; uno stile che si propone di esprimere direttamente e crudamente l'interiorità del dramma interiore dei suoi personaggi.

 

Proust

L'opera del francese Proust, À la recherche du temps perdu, consiste in una "ricerca" e in un recupero dell'essenza del passato per sottrarla al tempo. Lo scrittore si trova di fronte alla dissoluzione della realtà sotto forma di moteplici impressioni e riflessi di coscienza che scaturiscono dalla cose stesse.

Al frazionamento della personlità si aggiunge la frammentazione delle cose e perfino dei pensieri: l'universo proustiano è perciò un universo di frammenti; la realtà appare come una serie di quadri successivi.

Di fronte alla labilità di ogni cosa, per lo scrittore acquista grandissimo valore l'arte che tende alla "ricerca" di quella verità che portiamo sconosciuta in noi stessi. Egli, dunque, oppone alla letteratura che si propone solo di "descrivere le cose" (naturalismo) quella autentica e rivelatrice che tende a "ritrovare" e a "penetrare" la vita. Caratteristica della tecnica narrativa proustiana è, infatti, l'analisi capillare e minuziosa dei moti della psiche.

 

Joyce

L'opera di Joyce, dai suoi primi tentativi con il romanzo autobiografico Dedalus fino alla grande "summa" dell'Ulysses, rompe ancora più decisamente il semplicistico determinismo degli istinti, tipico del romanzo naturalistico, per far posto a getti di oscuri impulsi irrelati o a complessi grovigli di sensazioni, immagini, ricordi, libere associazioni mentali.

Mentre per il romanziere onnisciente dell'Ottocento le cose e gli oggetti hanno sempre un significato, il romanziere del nuovo Novecento, esemplificato in questo caso da Joyce, si sente colpito e trascinato da fatti per sé insignificanti. Si frantuma, dunque, ogni possibilità di azione intesa in senso tradizionale; centro della nuova azione diviene tutto ciò che è casuale, incoerenti, inessenziale, il tempo sembra fermarsi, dilatarsi.

 

Kafka

La sua produzione narrativa comprende tre romanzi: Il processo, Il castello, America e tutta una serie di racconti tra cui il famoso La metamorfosi [7].

I mezzi narrativi di cui si vale Kafka, sono apparentemente tradizionali, ma nei suoi testi Kafka esprime tutta l'assurdità e illogicità della realtà in un clima, spesso, di incubo e di angoscia, legato, più che a una particolare situazione storica e temporale, alla condizione esistenziale dell'uomo moderno la cui vita risulta schiacciata dalle forme organizzate della società e, insieme, irrimediabilmente degradata e alienata.

 

Esperienze figurative

1

1) Redon, L'occhio (1882). Egli è il più qualificato interprete della crisi di sfiducia nell'oggettività del reale ipotizzando una verità "autre" che prende corpo nelle visioni figurative dei simbolisti.

2 3

2) Kirchner, La strada (1913). Gli espressionisti tedeschi accentuano il vigore coloristico dei francesi con una maggiore deformazione formale e con una più acre critica sociale, come rivela quest'opera.
3) Deraine, Bacino di Londra (1906). Come tutti gli espressionisti francesi carica il reale delle proprie emozioni interiori forzando l'irrazionalità del colore.

4 5

4) Picasso, Le demoiselles d'Avignon (1907).
5) Braque, La tavola del musicista (1913).
Entrambi sono gli iniziatori del cubismo, un modo nuovo di vedere e conoscere la realtà attraverso la scomposizione dei volumi e dello spazio che il pensiero organizza in una visione simultanea.

6 7

6) Kandinskij, Quadro con tre macchie (1914).
7) Kandiskij, Grave forma (1922).
Qui la verità dell'arte si stacca decisamente da rapporto con il reale con l'astrattismo.

8 9

8) Duschamp, Ruota di bicicletta (1913). Il dadaismo, di cui è protagonista Duchamp, ironizza tanto sulla realtà quanto sull'arte che vorrebbe nobilitarla con significati poetici. La scelta di una ruota di bicicletta asposta in una mostra annulla l'arte come attività creatrice.
9) Boccioni, Stati d'animo 1: gli addii (1911). Una riconsiderazione del reale si verifica con il futurismo. Boccioni interpreta la componente dinamica e i caratteri di simultaneità degli atti della vita espressi nei manifesti e nei programmi del movimento.

10 11 12

10) Tanguy, Il sole nel suo scrigno (1937).
11) De Chirico, Le muse inquietanti (1917).
12) Dalì, Persistenza della memoria (1931).
La metafisica di De Chirico traspone la realtà in termini di estraneazione, di mistero e di enigma aprendo le porte al sogno e all'inconscio. Il surrealismo, poi, a differenza della pittura metafisica, abbandona del tutto la scena della realtà per portarsi decisamente nel mondo dell'inconscio, rivelato dall'analisi freudiana.

 

Bibliografia

 

  • AA. VV., Innovazioni tematiche, espressive e linguistiche nella letteratura italiana del Novecento, a cura di V. BRANCA e di altri studiosi, Firenze, 1976

  • BEACH J. W., Tecnica del romanzo novecentesco, Milano, 1948

  • BOBBIO N., La filosofia del Decadentismo, Torino, 1944

  • CACCIA E., Primo Novecento, Venezia, 1966

  • DE ROBERTIS G., Scrittori del Novecento, Firenze, 1940

  • GIACHERY E., Verga e D'Annunzio, Milano, 1968

  • GIOANOLA E., Il Decadentismo, Roma, 1972

  • GUGLIELMINO S., Guida al Novecento, Milano, 1971

  • LEONE DE CASTRIS A., Il Decadentismo italiano (Svevo, Pirandello, D'Annunzio), Bari, 1974

  • PUPPO M., CAVALLINI G., Il romanzo da Svevo a Tozzi, Brescia, 1989

 

Note

[1] Il Leonardo è una rivista di cultura fondata a Firenze da G. Papini (pseudonimo Gian Falco) e G. Prezzolini (pseudonimo Giuliano il Sofista) nel 1903 e vissuta, con varia periodicità, fino al 1907. Accolse, non poco confusamente, le esperienze filosofiche più diverse, dal pragmatismo di W. James al vitalismo di H. Bergson, all'idealismo neohegeliano di Croce e di Gentile, manifestando una sostanziale incostanza ideologica, ma anche un desiderio di rinnovamento e di ricerca culturale che troveranno più sicura espressione nella Voce.

[2] Fra tutte le riviste La Voce è la più notevole in quanto nella sua prima fase si batte per un rinnovamento della letteratura che coincide con un rinnovamento della società italiana e cerca di superare il tradizionale distacco dalla letteratura dalla vita nazionale. Ma dopo muterà indirizzo e proprio sulle pagine verrà teorizzata una concezione quanto mai aristocratica e rarefatta della poesia.

[3] Einstein e il realismo einsteiniano: il mondo degli eventi può essere descritto dinamicamente come un mondo a tre dimensioni (spaziali) che muta a seconda del tempo. Ma può anche essere descritto staticamente come un mondo a quattro dimensioni (le tre dimensioni spaziali e la dimensione temporale). In questa descrizione statica, ogni realtà fisica non è mai una pura realtà spaziale, indipendente dal tempo; è piuttosto un "evento", caratterizzato dalla sua dimensione temporale non meno che dalle sue dimensioni spaziali. Di fronte a tale stato di cose l'io si trova immerso in una realtà incomprensibile, indecifrabile, non più unitaria, ma molteplice.

[4] Pascoli sente acutamente la crisi che caratterizza la fine del secolo, la sfiducia nella scienza, la paura di terribili rivolgimenti sociali: di conseguenza la costante della sua produzione è la fuga dalla storia, una regressione verso l'infanzia e verso la natura vagheggiata come unica salvezza. Ma i momenti dell'infanzia e i dati oggettivi della natura e della campagna sono da lui rappresentati, nelle sue prove migliori, in una dimensione simbolistica, calati in un assorto clima di smarrimenti e di stupori. E per fare ciò egli rinnova profondamente i moduli poetici, disarticola le strutture metriche tradizionali, travalica i confini semantici della parola.

[5] Freud, fondatore della psicanalisi, determinò la presenza di tre livelli o zone della psiche: l’inconscio, il subconscio (o "subcoscienza") e la coscienza. La prima è la zona più misteriosa dell’individuo umano e rappresenta la sede degli istinti più primordiali e il campo di un’attività psichica assolutamente libera da ogni controllo della volontà. Questa attività latente, che condiziona enormemente l’evoluzione psichica dell’individuo, è all'origine della formazione dei cosiddetti "complessi" e pertanto costituisce un momento assai rilevante nell’economia esistenziale dell’uomo. Addentrarsi nell’incoscio è assai arduo: un tentativo terapeutico, che si rivelò al Freud abbastanza proficuo, consiste nell’analisi dei sogni. Il "subconscio" è una zona – al limite della coscienza – in cui dominano ancora gli istinti naturali ma non senza che il soggetto ne abbia una qualche consapevolezza. La "coscienza" è invece la sede in cui l’attività psichica si esplica sotto il dominio della volontà e, quindi, applicando o non applicando deliberatamente le norme del vivere civile (in altre parole è la sede in cui si manifestano la "cultura" e la "moralità" dell’individuo).

[6] Il termine "Vedanta" si riferisce al senso letterale originario del termine, ovvero "fine dei Veda". Fondamento del Vedanta sono le Upanisad, le composizioni formatesi in ambito ascetico dall'interpretazione misteriosofica delle quattro grandi raccolte vediche. Il termine indica la conoscenza completa dei Veda, l'illuminazione che ne discende dalla comprensione delle eterne verità. Il tema fondamentale di tale dottrina è il concetto di "Maya", la potenza creatrice della divinità che emana da se il mondo delle apparenze, cioè la molteplicità divisibile degli enti che possiedono attributi e forme specifiche, hanno nomi e sono destinati a trasformarsi e alla fine perire. Nel gioco degli opposti Maya è il volto stesso dell'illusione, il velo che sfuma e confonde l'essenza dell'Uno e non permette all'uomo di percepire il mondo materiale in modo adeguato: colpito dalla frammentarietà del mondo fenomenico l'uomo, il singolo, non coglie la profonda unità spirituale del cosmo perché è costretto egli stesso a darsi una visione del mondo che, così come appare, non ha valore oggettivo e pertanto diventa costruzione soggettiva del singolo. La magia della Maya si esprime così nell'ignoranza ("avidya") che allontana l'uomo dall'affermazione della verità, che è identità di anima universale e anima individuale ("atman") o, per dirla alla maniera gnostica, dell'Assoluto, della pienezza dell'Essere (Pléroma) e dello Pneûma (lo spirito presente in ogni individuo). Nella filosofia occidentale fu Schopenhauer a diffondere il concetto di "maya" interpretandolo come velo illusorio del mondo fenomenico che avvolge il principio noumenico della volontà eterna, irrazionale e incoscia, e del dolore; velo che costringe l'uomo a costruirsi una propria visione soggettiva di ciò che lo circonda.

[7] Relativamente a quanto detto in merito ai testi narrativi di Kafka il raccondo La metamorfosi è esemplare. Si presenta una vicenda cruda e terribile, ma che si risolve in maniera che si presta a varie interpretazioni. L'autore, con apparente impassibilità, ma con trasparente simbologia, descrive la trasformazione di un commesso viaggiatore, Gregor Samsa, in un enorme e mostruoso insetto: dapprima lo stupore, il disagio della situazione, l'isolamento e la degradazione; poi l'accettazione della propria condizione di alterità fino a che l'incolpevole vittima si lascia morire senza odio e senza rimpianti.

 

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