Basiliche paleocristiane, osservazioni
A cura di A. Iannello - pubblicato in "Domum Tuam Dilexi", Città del Vaticano - 1988
La
basilica romana di S.Vitale, indagata dal Matthiae negli anni Cinquanta,
fu da questi ritenuta edificio eccezionale nell'insieme delle antiche
chiese di Roma. Una coppia di pentafore colonnate in facciata (tra loro
in asse) gli sembrarono infatti dimostrare come, nella fase originaria,
il tempio fosse volutamente lasciato aperto alla vista e all'accesso
diretto dall'esterno. Matthiae riteneva, infatti, che la distanza di
poco più di cinque metri interposta tra il filo esterno del portico di
facciata della chiesa e l'antica sede stradale dell'antistante "vicus
longus", fosse oltretutto troppo scarsa perchè altri manufatti antichi
vi trovassero posto e che questo confermasse incontrovertibilmente la
sua teoria per la conformazione dell'ingresso in antico. Egli allora si
volse alla ricerca di elementi di sostegno per un'ipotesi di cronologia
la più alta possibile se non proprio per S.Vitale, la cui data di dedica
è nota come certamente pertinente al V secolo, almeno per una possibile
fonte d'ispirazione rispetto ad una tipologia così singolare. Il
modello, di cronologia costantiniana, per il sistema d'accesso che gli
sembrava evidenziarsi in S.Vitale, lo indicò perciò nel supposto analogo
arrangiamento di facciata dell'antica basilica vaticana, nonchè delle
basiliche cimiteriali tipiche di Roma nel IV secolo. Quanto al perchè
dell'adozione di tale modello per una chiesa urbana come S. Vitale, fece
riferimento all'agire dell'influsso dell'architettura aulica su quella
cristiana in epoca costantiniana e alla conseguente ricerca di effetti
trionfalistici e propagandistici da parte dei committenti. Le cose
furono poi ulteriormente complicate dallo stesso Matthiae quando volle
stabilire confronti e possibili equivalenze tra la situazione da lui
evidenziata a S. Vitale (che riteneva senza alcun dubbio una chiesa
originariamente "aperta" sulla pubblica via) e quella di altre chiese
romane per cui era già nota l'esistenza (o in qualche caso la sola
possibilità dell'esistenza) di una polifora aperta nel muro di facciata
quale accesso alla navata centrale; essendo però al contempo solo
ipotizzato che tali polifore fossero precedute, in quei casi, da altre
simili in asse e men che mai provato che il tutto fosse direttamente
aperto verso l'esterno.
Ho voluto soffermarmi sull'impostazione data da Matthiae al problema, da
quarant'anni a questa parte in realtà mai confutata seriamente, poichè
alcuni suoi aspetti ne risultarono fuorvianti; e ciò con buona pace
dell'apparente avallo che ne veniva da parte di Prandi e stante la
sostanziale accettazione acritica di essa da parte di Krautheimer, per
esempio.
La prima cosa discutibile, in tale impostazione, è l'aver dato per
assiomatica la ricostruzione della situazione originaria della facciata
di S.Vitale proposta; la seconda è l'aver spostato l'ambito di
riflessione critica, storica e tipologica, eminentemente sull'epoca
costantiniana e addirittura su quella precedente; trascurando proprio
quel V secolo (o poco tempo prima) cui si riferiscono le fonti
disponibili e pertinenti; la terza (ma potremmo considerarla accessoria)
l'aver chiamato in causa quella particolare classe di edifici, quali
sono le basiliche circiformi, che le recenti ricerche consigliano di
valutare con estrema prudenza rispetto a qualunque ipotesi di influenza
su chiese urbane di qualsiasi genere, delineandosi sempre più fortemente
(per le circiformi) la decisiva importanza del loro ruolo nell'ambito
cimiteriale e le conseguenze di ciò sulla genesi e lo sviluppo
dell'architettura del tipo.
Occorre allora ripartire da S.Vitale e provare a vedere perchè, per
cominciare, potrebbe non essere affatto scontato che quella chiesa
rimanesse in origine aperta sulla pubblica via, con un semplice portico
con una polifora in facciata. Il portico anteriore mostra innanzitutto
un macroscopico indizio interno a favore, quantomeno, della sua
originaria organicità rispetto al complesso schema compositivo che
presiedeva alla disposizione degli spazi della chiesa: esso era
tripartito da due trifore, poste perpendicolarmente al muro di facciata
e in asse con i colonnati interni della chiesa. Un particolare che già
consentirebbe, da solo, di avviare una riflessione in ordine alla
suddivisione degli spazi interni del tempio in rapporto alla fruibilità
in senso gerarchico di navate laterali e navata centrale; oppure di
riflettere sui percorsi stabiliti a priori per chi entrava nel tempio;
senza contare che, strutturalmente, detto particolare serve a rafforzare
la tesi di una copertura in piano, e praticabile, del portico di
S.Vitale: altro elemento a favore di una "complessità" compositiva
dell'insieme delle strutture anticamente presenti in facciata.
C'erano dunque due ambienti, probabilmente quadrangolari, (ad esso
organici) ai lati del portico di S.Vitale; e detto portico si presentava
centralmente quale spazio racchiuso da polifore sui quattro lati, nonchè
separato da due bassi gradini lungo il lato tangente alla navata
centrale. Questi due ambienti avevano evidentemente accessi proprii
dallo spazio ora descritto e fungevano da raccordo con le navate
laterali. Il tutto era verosimilmente coperto da un solaio praticabile
che non sappiamo quale sviluppo avesse, ai lati di facciata, sulle
navate laterali (vd. tav. 3 ). Un arrangiamento tuttaltro che semplice.
Osservando inoltre il prospetto esterno della polifora anteriore di
S.Vitale, quale è raffigurato in una fotografia che mostra i restauri
del 1956 in corso d'opera (tav. 1 ), si vedono chiaramente quattro
residui di ammorsature laterizie. Essi sono posti in corrispondenza di
ciascuno dei punti di raccordo degli estradossi delle arcate: per i due
centrali (i più grossi e soli a essere considerati allora) si ipotizzò
potessero rappresentare i resti dell'attacco di un protiro, non
escludendo che questo potesse far parte della versione originaria della
facciata della chiesa. Ed effettivamente è molto probabile che il
protiro ci fosse; così com' è fortemente possibile che sia stato
inserito in una fase seriore. Non altrimenti si spiegherebbe l'essere
capitelli e pulvini delle due colonne dell'arcata centrale della
pentafora, scalpellati sul lato interno e precisamente a filo con
l'intradosso dell'arco: evidentemente a seguito di un innesto traumatico
(perciò posteriore) della struttura in quel punto.
Ma rimangono ancora da spiegare le altre tracce di ammorsatura ai lati
di quelle esaminate per il protiro: cosa testimoniavano? Un intervento
tardo? Magari collegato al protiro?
E se così fosse, perchè gli altri capitelli e pulvini della pentafora
sarebbero stati lasciati intatti? E che tipo di conformazione ne sarebbe
poi risultata insieme al protiro? Con quale confronto a Roma?...
Naturalmente è impossibile dare risposte certe. L'unica cosa certa è,
semmai, che le superstiti tracce di ammorsatura più esterne ci parlano
di un intervento non traumatico rispetto alle strutture portanti e
decorative della pentafora. Che si possa quindi parlare di indizi a
favore dell'esistenza di una qualche struttura risalente alla fase
originaria e che là si appoggiava, è certamente solo un'ipotesi; ma da
tener da conto. E' lecito ritenere, infatti, che questa struttura avesse
agio di disporsi nello spazio di m 5,50, compreso tra la pentafora di
facciata e la sede stradale dell'antico "vicus longus"? E ammesso che si
trattasse di un semplice muro rettilineo provvisto di una o più porte,
quali elementi, possibilmente di ambito romano e di cronologia
confacente, si possono portare a confronto? C'è, infine, modo di
inquadrare criticamente il tutto? Naturalmente le altre chiese romane
con ingresso a polifora alla navata centrale, sono utili alla
riflessione; ma lo sono ancora di più se prima ci soffermiamo su di una
chiesa romana che per la sua specificità, ha forse conservato traccia
decisiva di come fosse concepito dal punto di vista
architettonico-compositivo il sistema di accesso che troviamo indiziato
in S.Vitale: questa chiesa, per quanto strano possa apparire il
confronto, è S.Stefano Rotondo.
Dedicata una quarantina d'anni dopo S.Vitale, in pieno V secolo, da papa
Simplicio, la chiesa circolare del Celio ha rivelato una complessa
vicenda costruttiva e l'adozione di uno schema di conformazione
dell'accesso all'interno (ripetuto, identico e simmetricamente, per
quattro volte) che è utile confrontare con quanto abbiamo in S.Vitale;
esso, per di più, è stato curiosamente fatto oggetto di modifiche in
corso d'opera tali da far pensare che gli artefici lo abbiano là
stancamente applicato per l'ultima volta: proprio più o meno nello
stesso periodo in cui le pentafore delle chiese del gruppo di cui ci
occupiamo pare venissero anch'esse modificate o cadessero in disuso.
Ma ciò che si vede in S.Stefano Rotondo va considerato soprattutto
perchè se si confronta il puro schema compositivo-architettonico e dei
percorsi interni, che deriva da un singolo dispositivo d'accesso in
quella chiesa, con quanto oggettivamente è stato possibile rilevare più
sopra per S.Vitale, si ricevono lumi da un edificio per l'altro e
viceversa (vd. tav. 3 ). Una sommaria analisi metrica degli spazi in
giuoco nelle conformazioni originarie degli accessi adottate nelle due
chiese; l'evidenza delle assonanze riscontrabili dal punto di vista
tecnico e decorativo nelle membrature architettoniche impiegate,
rappresentano, infine, altri elementi interessanti di valutazione.
A questo punto si può passare a notare come pure le altre chiese romane
dall'ingresso a polifora non solo non si rivelino in contrasto con
quanto si va delineando, ma servano ad ampliare le possibilità di
confronti e forniscano altri significativi indizi e rimandi a cronologia
più precisa (vd. infra), permettendo di approfondire l'argomento.
La particolare disposizione del quadriportico
antistante S.Sisto Vecchio, infatti, illumina in ordine a possibili
varianti (quando, evidentemente, ce ne fosse stato lo spazio
disponibile) del citato schema di accessi e percorsi dall'esterno
all'interno del complesso sacro (vd. tav. 2 ); La provata esistenza di
porte d'accesso indipendenti dalle estremità del portico di facciata
alle navate laterali, in S.Pietro in Vincoli e SS.Giovanni e Paolo,
precisa la volontà di gerarchicizzare gli accessi stessi all'interno di
naòs e navate, configurando meglio la pentafora d'ingresso alla navata
maggiore come accesso privilegiato e particolarmente enfatico, di
probabile originaria destinazione d'uso esclusiva per il clero. La
sicura esistenza di una galleria praticabile sopra il portico di
facciata nella chiesa di SS.Giovanni e Paolo, inoltre, supporta gli
indizi presenti in S.Vitale nello stesso senso (supra) anche se non è
possibile precisarne in dettaglio un'ipotesi di utilizzo originario.
E' in definitiva lecito ragionare della conformazione di veri e propri
narteci, parte integrante in pianta e in alzato dei sistemi compositivi
delle rispettive chiese, che non di semplici portici giustapposti alle
facciate. Ragionare di architetture che si rivelano comparabili a quelle
di noti esempi orientali, coevi per di più (vd. infra), che Matthiae
dichiarò espressamente di non voler considerare pertinenti al gruppo di
chiese romane in oggetto, perchè trascurò le evidenze di cui sopra,
muovendosi oltretutto sulla base di notazioni critiche frutto di rigidi
schematismi. Quindi si devono citare le chiese tessalonicesi di
S.Demetrio e dell'Acheiropoieta; quella costantinopolitana di S.Giovanni
di Studios; la B di Lekaion; la A di Filippi e altre (vd. tav. 4 ). Ma
persino la basilica del complesso di Alahan in Cilicia e quelle siriane
di El Bara e B di Resafa si osservano pertinenti, in un giuoco di
confronti con l'occhio rivolto alla disciplina dei percorsi nel tempio e
alla suddivisione degli spazi che ne deriva, nell'ambito
dell'architettura sacra dell'Orbe nel V secolo (tav. 4 ). E questo.al di
là della banale constatazione che, per di più, l'accesso alla navata
centrale in queste chiese avvenga a volte attraverso una polifora. Si
deve precisare meglio, allora, proseguendo a riflettere su questi
edifici di culto, romani e non solo, la cui architettura indizia intenti
compositivi così significativi, il momento storico in cui essi si
costruiscono.
La cronologia relativa all'insieme degli edifici romani in questione
porta più o meno alla prima metà del V secolo, ma con qualche
precisazione da fare preliminarmente. Ciò che ad esempio non si è potuto
mai stabilire con certezza per S.Pietro in Vincoli è stato il quando fu
costruita la chiesa (che aveva la pentafora d'ingresso) precedente
quella per cui si manifestò la volontà di un'intervento da parte di
Teodosio II e dell'imperatrice Eudocia sua moglie. Anche spostando la
data del successivo intervento di Sisto III-Eudossia fino al 450 (morte
di Teodosio II) e teoricamente fino a quando Eudossia non fu portata via
da Roma da Genserico nel 455, non si può daltronde fare risalire la
costruzione della prima chiesa oltre la metà del IV secolo, epoca in cui
il sito era occupato da quell'aula privata cui si volle addirittura
annettere la possibilità di un uso liturgico (forse perchè spinti a ciò
dall'angustia degli spazi cronologici disponibili). Uno scarto di pochi
decenni, quindi, tra la prima chiesa e il massiccio intervento che ne
seguì. Probabilmente un evento traumatico interruppe la vita della prima
chiesa, causando i successivi lavori di grande entità e di committenza
imperiale. Se per questo pensassimo al terremoto certamente verificatosi
a Roma nel 442/443, avremmo una data molto prossima a quella della
dedica di S.Vitale, diciamo intorno al 400, per l'erezione del primo
S.Pietro in Vincoli. A maggior ragione, poi, ammettendo che la chiesa di
Sisto III-Eudossia abbia mantenuto la polifora d'ingresso, solo
riducendone le arcate da cinque a tre per motivi di consolidamento
statico della facciata dovuti al terremoto.
Anche la fase con ingresso a polifora della basilica di S.Clemente è
stata di recente autorevolmente posta nell'ambito del V secolo, mentre
per S.Maria Maggiore e S.Pudenziana bisogna notare come i due edifici
rappresenterebbero le due sponde cronologiche, in avanti e indietro,
rispettivamente, per il gruppo di chiese romane dall'ingresso a
polifora: nel caso di S.Pudenziana non essendo possibile spingersi oltre
la fine del IV secolo (pontificato di papa Siricio), con S.Maria
Maggiore rimanendo invece in pieno pontificato di Sisto III.
Tutti gli edifici romani con ingresso a polifora si possono dunque
situare (volendo essere prudenti nelle attribuzioni al V secolo) tra il
390 e il 420 circa: in altre parole perfettamente dentro un periodo
storico-politico che si può significativamente definire "teodosiano". Un
periodo il cui inizio è subito successivo a due tappe fondamentali del
rapporto Stato-Chiesa sotto Teodosio, entrambe orientate verso una
fattiva organizzazione ecumenico-cattolica delle cose: l'Editto di
Tessalonica del 380 e il Concilio di Costantinopoli dell'anno dopo.
Questi edifici si situano all'indomani di avvenimenti di tale portata
(quasi integralista) da autorizzarci a guardar loro, a Roma e forse
nell'Orbe intero, come a tangibili manifestazioni di un'ideologia che si
afferma e sempre (sarà un caso?) materialmente grazie a iniziative di
alta o altissima committenza. Un'ideologia che funge da filo conduttore
a partire dal 380 almeno fino al 450 quando, con Galla Placidia,
scompare l'ultima discendente diretta di Teodosio; un'ideologia che non
perde in continuità ne' con l'esperienza stiliconiana ne' con
l'incontrollato sviluppo del ruolo della componente gotica (e ariana)
negli equilibri politico territoriali dell'epoca, e neppure per la
progressiva spinta centrifuga della "Pars Orientis" dell'Impero. Solo il
tracollo militare occidentale e africano che matura nel corso dei primi
trent'anni del V secolo, assieme al progressivo distaccarsi delle
comunità religiose orientali di marca monofisita, segnando la fine
definitiva del modello cattolico-imperiale teodosiano; forse favorendo,
lentamente, il progressivo vanificarsi di uno sforzo di omogenizzazione
cattolica che oggi possiamo intuire dagli indizi architettonici
disponibili negli edifici di culto del periodo, ma che molto maggiore
traccia di se' doveva avere lasciato nella liturgia, per esempio, che si
praticava nelle nostre chiese.
Purtroppo non esiste la fonte chiara e ineccepibile per la liturgia
della Messa nel V secolo a Roma o altrove: questo è un dato di fatto che
crea enormi problemi ai fini della corretta esegesi dei monumenti che
qui si trattano. Se tuttavia prendiamo in considerazione quanto ci è
pervenuto descritto nell'Ordo Romanus I per l'Occidente e nella Liturgia
di S.Giovanni Crisostomo per l'Oriente (testi di cui è riconosciuta la
pertinenza sostanziale ad epoca anteriore a quella delle tarde redazioni
in cui ci sono giunti) riguardo il solenne rituale d'entrata e di uscita
del vescovo nel tempio, non possiamo fare a meno di osservare come detti
riti si attaglino perfettamente allo schema delle disposizioni
architettoniche e dei percorsi che si è esaminato più sopra (vd. tav. 2
e 4 ) e all'ideologia che ritengo ispiratrice di esso. Ideale sarebbe
poter definire con precisione il momento storico in cui si impone
l'attenta codificazione di questa parte del rito della Messa, così
fortemente tesa a porre in risalto la dignità anche temporale del
Celebrante e il rispettoso distacco tra clero e popolo nel tempio. Le
fonti non permettono di dire se ciò sia avvenuto in epoca costantiniana
o piuttosto teodosiana (come sono propenso a credere); ciononostante il
Liber Pontificalis riporta incidentalmente per gli anni 422/432 la
notizia dell'introduzione dell'uso del canto dei Salmi per accogliere il
vescovo in chiesa. Forse in quell'epoca si intese ulteriormente
solennizare un rituale già in uso da prima? Ma c'è da domandarsi come un
rituale poniamo già codificato nell'uso da epoca costantiniana, potesse
essere passibile di aggiunte di tale valore simbolico dopo tanto tempo
(a metà V secolo): dovendosi infatti riconoscere il canto dei Salmi
all'entrata del vescovo in chiesa, equivalente ad un'acclamazione come
nell'uso del cerimoniale imperiale. Un vero e proprio rapportarsi della
liturgia a quel tipo di cerimoniale.
A Roma, rispettivamente sotto Innocenzo I e Sisto III, nel pieno del
clima ideologico teodosiano per come lo si è individuato sopra, si
recepiscono la festività orientale dell'Epifania e l'uso palestinese
della celebrazione diurna della nascita di Cristo; di contro l'Oriente
recepisce, nello stesso periodo, la festività occidentale del Natale al
25 Dicembre...
E' curiosamente in questo periodo, nel V secolo, che si redige un
controverso testo a carattere vagamente normativo sul quomodo oportet
sit aedes sacra : il "Testamentum Domini", appunto.
Tra il Concilio di Costantinopoli del 381 e quello di Calcedonia del 451
si produsse il massimo sforzo teologico verso l'ortodossia e
l'omogeneità religiosa dell'Impero, nonchè la definizione drastica delle
questioni di primato tra sedi episcopali: tutto grazie a un forte
impulso ideologico verso l'Unità che solo dopo il 451 nestoriani e
monofisiti attaccheranno apertamente (cosa che potremmo prendere a
ulteriore riprova dell'entità dello sforzo prodotto in senso unitario).
In conclusione nulla ci impedisce di ritenere che tutto questo abbia
avuto i suoi risvolti liturgici e quindi architettonici nella pratica
delle varie comunità dell'Orbe del tempo, compresa la romana. E se
logicamente non si produssero dappertutto esiti di speculare identità,
si ebbe forse una stagione all'insegna di un sorprendentemente forte
indirizzo generale comune, che investì, insieme, architettura e rituale
sacri.
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